29.04.2016
La rivincita dei grani antichi
E se il grano prodotto su larga scala, selezionato e modificato, reso iperproduttivo ma povero di valori nutrizionali avesse i giorni contati?
Senatore Capelli, Timilìa, Maiorca, Russello, Monococco Saragolla, Gentil Rosso, Verna, Rieti sono tutte varietà
antiche, altamente digeribili e che contengono poco glutine, le quali stanno conquistando sempre più ettari.
E pare che a scommettere su varietà antiche e agricoltura biologica siano le due isole maggiori italiane. Contadini sardi e siciliani stanno puntando sulla biodiversità, impegnandosi a riconquistare queste varietà. E a beneficiarne saremo tutti, ambiente compreso. Perché scegliere le specie antiche e autoctone vuol dire anche scegliere modelli agricoli integrati, biologici, in armonia con ambiente e territorio. Proponendo una via alternativa a mercato e multinazionali.
La novità è che ora anche i media se ne stanno accorgendo. La Repubblica, ieri, ci ha raccontato le belle storie dei ragazzi siciliani che si stanno impegnando per riscoprire questo tipo di coltivazione. Come per esempio Giuseppe Li Rosi, tra i più convinti sostenitori del ritorno all'antico in agricoltura: "Ho convertito 100 ettari dell'azienda familiare a grano locale e sono il custode di tre varietà locali, Timilia, Maiorca e Strazzavisazz". I custodi seminano queste rarità botaniche, dedicando almeno 10 ettari a ogni coltura, si impegnano nella ricerca storica e a mantenere la purezza del seme. Li Rosi, contadino da generazioni, è anche il presidente dell'associazione Simenza, cumpagnia siciliana sementi contadine, che mette insieme settanta produttori "ma altri cento sono pronti a entrare", assicura Giuseppe. La sperimentazione, oltre alla conservazione, è all'ordine del giorno nella Cumpagnia: si coltivano campi anche con miscugli di sementi, un procedimento diametralmente opposto alla tecnica moderna, che ricerca l'uniformità, lo standard in nome della quantità.
Certo, la produttività non è immediata. Bisogna aspettare almeno due anni per avere i primi risultati consistenti ed è fondamentale la rotazione regolare con le leguminose che arricchiscono il suolo di sostanze azotate. Anche il rapporto con l'industria sementiera non è sempre facile: le grandi multinazionali dei semi non sembrano infatti interessate a queste varietà minori e non ne mettono a disposizione le sementi. Gli agricoltori, inoltre, non potendo scambiare grandi quantità di semi secondo l'accordo commerciale internazionale, hanno difficoltà a conservare e tramandare le varietà locali. Ma la Sicilia non si arrende: secondo la ricerca di Repubblica.it, sono numerosi i ragazzi che scelgono di studiare agraria e fare ricerca: "ufficialmente sono solo 500 ettari, ma c'è chi parla di 3'000", leggiamo sul quotidiano romano.
La stessa musica suona in Sardegna: Luca Melis ha 32 anni, il sogno di finire gli studi di Economia ("Mi manca giusto qualche esame") e dieci ettari di terra coltivati a grano duro. "Senatore Cappelli, biologico al cento per cento". Spighe che crescono nelle terre un tempo coltivate dal padre Vincenzo, classe 1937, il cui desiderio, per la verità, è di vedere l'unico erede laureato. "Il futuro non lo conosco, intanto ho imparato un mestiere".
È uno degli agricoltori che in Sardegna sta riesumando la varietà che dà al carasau e al civraxiu il profumo di pane buono. Produce 15, 18 quintali di grano a ettaro e riesce a vendere a 55, 60 euro al quintale, un prezzo tutto sommato buono, che copre solo in parte la resa inferiore del terreno dovuta alla rinuncia all'uso di fertilizzanti e pesticidi chimici (giusto per chiarire: un campo coltivato con l'aiuto di fitofarmaci può arrivare a produrre fino a 30 quintali di frumento a ettaro).
Il problema, racconta il giovane imprenditore agricolo di Serri, "è che chi fa il biologico non viene sostenuto dalla Regione. L'Argea (agenzia regionale che eroga i premi in agricoltura, ndr) paga in ritardo, c'è una burocrazia che non ha fine".
E di nuovo ci scontriamo con la burocrazia e con il sistema normativo che non si adegua alla realtà. Perché la verità è che agricoltori e consumatori hanno imboccato un'altra strada. E anche la politica dovrebbe riconoscerla. "Vogliamo ricostruire la cultura del grano – spiega Maurizio Fadda presidente di Biosardegna – con un approccio molto popolare". L'idea è rifare il forno comunitario, parecchio comune in passato.
Il ritorno alla filiera del grano sardo "è la conseguenza di una presa di coscienza da parte dei consumatori. La gente ha capito che tanto del cibo che mangiamo non è esattamente genuino e per questo vuole conoscere l'origine di un prodotto. I grani moderni hanno determinato la diffusione di intolleranze al glutine e della celiachia. Un ritorno alla tradizione vale un guadagno in salute". Benessere (nostro e dell'ambiente), gusto e piacere, aggiungiamo noi.
Tanto che crescono i pastifici che si rivolgono a questo tipo di produzioni. Come per esempio il pastificio Di Martino di Gragnano che usa solo grani italiani valorizzando, con l'aiuto dei contadini con cui ha instaurato un forte legame e con il mulino De Vita, i grani autoctoni italiani garantendone anche la completa tracciabilità.
Michela Marchi e Gabriella Bruzzone
Fonte: Slow Food Italia